Il Faro si accende nella notte.
Il Faro c’è anche di giorno, ma di giorno è molto meno evidente, si confonde tra le altre strutture, anche se alto, è quasi anonimo.
Si accende di notte. È una compagnia rassicurante nelle sere tranquille di normale navigazione, ma risulta persino vitale quando il mare è in tempesta, quando le scosse e gli urti delle onde sono paurosi, quando sembra che stiamo perdendo la rotta, il nostro equilibrio e forse anche la speranza.
In quel momento, quella torre anonima si trasforma, diventa una luminosa e forte presenza, una sicura protezione nel buio e nel continuo sprofondare delle correnti minacciose.
In quel momento il Faro è quasi l’unica preziosa possibilità di salvezza.
Quella che è capitata è una tempesta, che ha colpito tutto il mondo, un evento tanto grande quanto spaventoso, che ha diffuso paura, isolamento, grande insicurezza e diffidenza, che ha reso pericolosa la vicinanza, nociva la comunità, rischiosa la debolezza e la vulnerabilità.
È una tempesta spietata, che ha aggredito le persone più deboli, anziane e quelle già colpite da una malattia.
Una tempesta che è sembrata vincere su tutto, che ha reso impotenti i governi e la scienza, che ha lasciato come sola possibilità la distanza, che ha mostrato a tutti quanto siamo precari e fragili; una tempesta che ha fatto sentire tutti molto meno al sicuro e protetti, soprattutto i bambini.
E durante la tempesta è giusto ripararsi, ma deve anche continuare a splendere una luce, che illumini il nostro presente e soprattutto annunci il nostro futuro.
La missione del Faro, che ne fonda la scelta metodologica, è di aiutare i bambini a vedere la bellezza nelle cose della vita e anche le tempeste sono parte della vita, anche quelle del tutto sconosciute.
Il Faro si vuole prendere questo compito, ovvero proteggere i bambini, sostenerli nelle difficoltà, riportare il sorriso. Ma il Faro si assume anche il compito di ritrovare la bellezza, renderla evidente a noi, e poi ai bambini.
Questa è la domanda che ci accompagna in questi tempi: riiniziare le nostre attività, magari limitate, significa solo riprendere tutto uguale a prima, per quanto fattibile? Significa cercare di superare la tempesta, cercare di lasciare tutto alle spalle e fare prima possibile come se nulla sia successo?
Una parte di noi sa che sarà così, che deve essere così. Abbiamo a lungo insistito sull’importanza della continuità, della quotidianità, della rassicurante regolarità dello stare insieme.
E quanto prima vogliamo restituire questo ai bambini, il loro luogo, la loro tranquillità, le loro sicurezze, la gioia di stare insieme comunque, il divertimento e la vita normale.
Ma una parte di noi non vuole che sia solo questo.
Una parte di noi non vuole accontentarsi, e vuole riprendere quel ruolo ambizioso e profetico che ha ogni vera opera educativa: vedere la bellezza nelle cose della vita.
Forse essere obbligati a fermarci è stato anche un dono. Forse la distanza dalla nostra vita ci ha resi più lucidi, più vicini a ciò che ha veramente valore per noi.
Abbiamo scoperto quanto tempo abbiamo, se non lo buttiamo nel lavoro, a volte ossessivamente. Abbiamo scoperto quanto possono essere splendide le città, prive di inquinamento e di auto, o i fiumi e i laghi tornati trasparenti e visitati da splendidi animali.
Abbiamo scoperto, in un momento drammatico, quanto sono preziosi i nostri anziani, e quanto la loro dolcezza e delicatezza può essere spazzata via in un attimo, e forse ci dedicheremo un momento in più a loro.
Abbiamo scoperto quanto, sebbene lontani, abbiamo bisogno degli altri, della loro presenza, del loro affetto.
Abbiamo scoperto forse, che una società in cui le persone non sono protette, in cui la povertà mette a rischio il benessere di così tanti, se colpiti da un momento di crisi, una società in cui pochi sono tutelati e benestanti, è già, essa stessa, una società malata e che una società in cui tutti stessimo meglio sarebbe molto più accogliente per tutti.
Abbiamo scoperto che nella paura, e a volte nella disperazione non ci dà sollievo il possesso e la ricchezza, ma la vicinanza di un volontario, la dedizione di un medico, il sorriso e la solidarietà di un estraneo. Forse abbiamo scoperto quanto il contributo alla comunità non è solo legato alla produzione, ma anche alla cura delle relazioni.
Abbiamo scoperto quanto è insensato dividere tra persone sane e persone malate, persone affermate e persone disagiate, persone inserite e persone marginali; ci siamo scoperti anche tutti un po’ più uguali, un po’ più “in comune”, un po’ più in condivisione.
Per tanti aspetti, questo periodo è stato più vero, pieno di valore, prezioso, potenzialmente aperto a rinnovare la nostra società e la nostra stessa idea di vita.
Non sappiamo quanto tutti questi doni rimarranno in noi, non sappiamo quanto i bambini potranno coglierli.
Quello che sappiamo è che se riapriamo il Faro è per riaccendere quella luce, quella che deve illuminare non solo la vita dei bambini, ma anche il loro mondo e far risplendere, con loro e per loro, la bellezza oggi sconosciuta.
Educare per noi è immaginare, educare per noi è sognare. E chiusi in casa, nel silenzio e nelle lunghe ore, forse abbiamo iniziato a sognare una nuova vita, forse alla fine anche il nostro sorriso sarà più vero e forse riusciremo a rendere anche i bambini protagonisti di questo nostro sogno.